(1989) The Cure - Disintegration

(1989) The Cure - Disintegration

La musica è un'arte in grado di regalare gioie sia grandi che piccole - nell'accezione di graziose, lievi. Quella di ieri è stata proprio una piacevole sorpresa; contro ogni aspettativa, i Cure regalano oltre un'ora di ottima performance in un evento gratuito: presentano il nuovo album, ed attingono al loro repertorio classico, strizzando fortemente l'occhio al disco di cui sto per parlare, uno dei miei album preferiti di sempre.

Questi è Disintegration, disco scritto e pubblicato nel 1989 che chiude la trilogia gotica del gruppo (iniziata con Faith, 1981 e proseguita con Pornography, 1982). L'album è pervaso da una forte vena malinconica, da tinte eteree e delicate, quasi venisse visto dall'esterno di una finestra appannata.

L'opera si apre con Plainsong, tema quasi solenne sostenuto da corposi tappeti e che prevede un'incursione vocale solo alla fine. Segue un classico, Pictures of you, che esprime tutto il rimpianto per un passato l'impossibilità del cui ritorno è certa. Delle stesse sonorità è Closedown, cui segue una delle gemme del disco: Lovesong è una delle canzoni d'amore più dirette e sincere di cui si abbia memoria; ritmo sostenuto, voce che si adagia leggera su un tappeto di tastiere e cui fanno eco i curati incisi di chitarra, dopo un intenso bridge.

È poi il momento di Last Dance, brano dalle velleità quasi psichedeliche, ipnotico nella stesura e nelle timbriche; giunge poi quello che è il tema più celebre del disco, Lullaby: Smith e compagni indovinano perfettamente ritmo e sonorità, e realizzano una delle loro canzoni maggiormente apprezzate.

Pettinarsi non era in cima agli interessi dei Cure, evidentemente.

Pettinarsi non era in cima agli interessi dei Cure, evidentemente.

Altro singolo di successo è Fascination Street: ancora reminescenze e distorsioni darkwave al cospetto di incisi di tastiere cristallini e brillanti; poi le monumentali Prayers for Rain e The Same Deep Water As You, veri capolavori d'atmosfera in cui liriche malinconiche si sposano perfettamente con tappeti corposi ma mai soffocanti.

Arriva poi il turno della title-track Disintegration, brano più incisivo e deciso rispetto a quelli che lo precedono, che vede nella voce di Smith il segreto per mantenersi vario e gradevole per tutti gli otto minuti abbondanti della sua durata.

Bella come tutti i soli che da qui non potremmo vedere mai.

Tempo di addii, tempo di Homesick, vera summa delle sonorità di inizio anni novanta del gruppo britannico: archi che non accennano a un sorriso, echi di pianoforte, liriche intense, ben aiutate da riff di chitarra pieni di nostalgia. Un barlume di speranza affiora nella traccia di chiusura, Untitled: sebbene il testo sia ancora un portrait nostalgico, il tema è più sostenuto e si chiude con un inciso ipnotico ma più solare rispetto al resto del disco.

Assolutamente un'opera dall'elevato valore oggettivo e dall'immensa valutazione personale - un capolavoro di sonorità ed atmosfere come pochi altri sono stati in grado di creare all'interno di un solo disco.