(1995) Opeth - Orchid

(1995) Opeth - Orchid

Prendete l'albero con cui avete più ricordi d'infanzia, immaginatevi indifesi con lui al centro di un bosco di conifere a latitudini vichinghe, stringetelo mentre la bufera di gennaio vi sferza graffiante il volto concedendovi minime tregue di torpore: questo è Orchid. L'esordio degli svedesi Opeth, spesso bollato come acerbo, risulta invece più che mai convincente nella sua ruvidezza e genuinità.

La formula del gruppo è nota ai più: lunghi brani divisi tra rabbiosi ostinati in bilico tra death e progressive metal al limite dell'ipnotico ed intimi incisi acustici, ora puramente folk ora dalle venature jazz; la voce di Mikael Åkerfeldt alterna in un continuo crepuscolo veemenza growl a sezioni chiare e pulite, testimonianza del considerevole bagaglio tecnico del cantante nonché prima chitarra della formazione.

La poetica opethiana, rimasta sempre coerente con se stessa, è chiara sin da questo primo episodio: decadenza legata alla natura (in debito diretto le bucoliche visioni del maestro Baudelaire), tristezza non melanconica ma irreversibile ed opprimente, riferimenti climatici propri del paese d'origine, misti a stilemi gotici tradizionali; al contrario di tanti altri conterranei però, si glissa su paganesimo e supremazia ariana, temi all'epoca già cristallizzati e superati: si preferisce loro una narrazione più esistenziale, come rivela la traccia d'inizio In Mist She Was Standing, che apre in medias res con un riff ruvido e sostenuto da doppia cassa, il quale si evolve più volte prima di lasciar spazio ad un primo idillio tanto puro quanto spettrale, subito riaccompagnato dal resto dell'organico che esplode in un cambio di metrica a riportare il brano sui rapidi ritmi iniziali; la suite continua con una seconda pausa glaciale e profonda, seguita ancora da una coda diretta e robusta.

Degli Opeth relativamenti giovincelli.

Degli Opeth relativamenti giovincelli.

La parola chiave è ipnosi: per quanto si possano nascondere i propri sentimenti dietro una superficiale maschera di indifferenza al termine del primo ascolto, non si possono recidere i fili sottili con cui Akerfeldt e compagni ci tirano a loro: per Under the Weeping Moon la formula è la medesima, con ferite causate da temi assassini prontamente lenite da incisi cauti e sospesi: il senso di incombenza è qui maggiore, e tale presentimento è presto confermato dalla ripresa violenta dell'esecuzione corale, anticipata dal primo dilatato intevento vocale a registro intonato.

La nebbia iniziale si dirata per mostrare un prezioso ed inatteso intermezzo per solo pianoforte, ad opera dell'allora batterista Anders Nordin: Silhouette è una vera gemma, davvero difficile da riportare in sede scritta; per quanto molti amanti dell'avorio classico mostreranno dissenso a riguardo, vuoi per l'eccessivo riverbero vuoi per alcuni limiti tecnici, questo brano incarna perfettamente la loro intenzione di descrivere sensazioni intense tramite alternanza crepuscolare di intensità differenti.

Sì, nel novero della loro produzione vi è un inciso per solo piano.

Si viene poi trascinati in Forest of October, primo di una lunga serie di precisi riferimenti stagionali all'interno della loro produzione, seguita da Twilight Is My Robe, altra suite dalle numerose facce, tutte articolate e degne di attenzione, tra cui spicca l'arpeggio solenne e brillante del primo mutamento umorale, versante apollineo. Passo successivo è la struggente e concisa Requiem, dal suono di chitarre quasi barocco e accompagnata nel finale da percussioni delicate ma non invasive - finale per errore di produzione incluso nella traccia conclusiva The Apostle In Triumph, termine ultimo e degno di un sopore indotto dalle trame degli Opeth, ora capziose ora taglienti, ma sempre curate e profonde.

Il gruppo svedese saprà limare sapientemente il proprio stile nelle uscite successive (Morningrise, My Arms, Your Hearse, Still Life), scrivendo brani ora travolgenti ora delicati fino alla stesura di un intero disco progressive-rock (lo splendido canzionere che è Damnation), arrivando alla massima efficienza sonora di Blackwater Park, prodotto da un certo Steven Wilson (leader dei Porcupine Tree). Ma niente sarebbe esistito, senza quell'acerba e crepuscolare orchidea.



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