Denovali Swingfest 2013 @ Berlin

Denovali Swingfest 2013 @ Berlin

Che Berlino sia la capitale della musica sperimentale è cosa nota: non solo per la qualità della produzione locale, pur elevata, ma soprattutto per l'offerta in termini di eventi e rassegne, il seguito che questi ottengono, e l'attitudine generale per cui l'arte del suono è considerata regina tra le discipline della mente, e non solo fenomeno d'intrattenimento.

Esempio fresco e brillante è l'edizione 2013 del Denovali Swingfest, due giorni di esibizioni in altrettante splendide cornici, a cura di Denovali Records - etichetta indipendente tedesca che propone un panorama vasto per stili e coeso per intenti a partire dall'estrema cura per la confezione del supporto musicale, come indicato esplicitamente nel loro manifesto.

Il festival, la cui prima edizione risale al 2007, ha offerto un cartello decisamente appetitoso: per espresso volere dell'organizzazione non erano previsti headliner, ogni artista ha avuto il medesimo tempo a disposizione ed il responso del pubblico è stato tanto caloroso quanto equo, a testimonianza di un interesse profondo e rispettoso per quanto vissuto.

Day one - 5.4.13 @ Radialsystem V

La prima serata, tenutasi nella bella cornice del teatro Radialsystem V sito a ridosso della Sprea, propone quattro esibizioni: apre un ragazzetto ventiduenne di Monaco, al secolo Carlos Cipa, che esegue la sua prima fatica discografica, The Monarch and the Viceroy [2012]: il suono è fresco, in certi passaggi si scorgono Sakamoto ed il nostro Einaudi, e come per tutti i pianisti contemporanei l'eredità di Satie e di Philip Glass [per citare un paio di figure influenti nell'evoluzione pianistica più recente] è evidente. Ci invita timido a comprare il disco, pegno doveroso per un giovane di cui sentiremo certamente parlare in futuro se saprà rielaborare gli stilemi presenti e passati con personalità, senza cadere nella trappola della maniera - facile giudicare comodi dal proprio divano, sia chiaro!

Carlos Cipa - picture © of Simon Bierwald

Carlos Cipa - picture © of Simon Bierwald

La medesima umiltà dell'ingresso ne accompagna l'uscita, stavolta con un sincero strascico di applausi, ed il palco si prepara ad accogliere il Bersarin Quartett: a differenza di quello che il nome può suggerire siamo al cospetto del progetto solista di Thomas Bücker, per l'occasione in compagnia di un batterista, verosimilmente Benjamin Kövener già ospite dell'ultimo album.

Digressione fondamentale: inutile perdersi nelle etichette e nelle tassonomie forzate, è questo un esercizio lasciato ai critici più zelanti. Certa musica è espressione diretta della mente, e gli stili e le tecniche usate sono solo il risultato di processi personali ed ignoti, che vanno valutati solo per le sensazioni e le emozioni suscitate in sede di ascolto, specie in quella dal vivo in cui l'impatto sonoro è davvero imponente ed impossibile da riferire in sede scritta. Questo vale per tutti gli artisti ascoltati durante la rassegna, per quanto sia doveroso far riferimento ad influenze evidenti qualora opportuno.

Thomas Bücker aka Bersarin Quartett - picture © of Henner Flohr

Thomas Bücker aka Bersarin Quartett - picture © of Henner Flohr

L'unica fonte luminosa durante la prova del fittizio quartetto è la lampada del tavolo dal quale Thomas comanda il proprio laptop, proponendo un suono stratificato in cui strumenti tradizionali accolgono incursioni elettroniche e tappeti di rumore [alla Stars of the Lid] - tecnica astuta e sempre vincente questa, che ha segnato in maniera irreversibile tutta la produzione del primo decennio di questo secolo. Se i suoi lavori in studio sono ariosi e posati, la prova dal vivo è decisamente più cupa e massiva, per un'ora intensa e senza pause. Con due dischi alle spalle, l'eponimo Bersarin Quartett [2008] ed il recente II [2012], la musica di Bücker desta massimo interesse circa i propri sviluppi futuri.

Altra pausa ed è il turno del collettivo britannico che risponde al nome di Hidden Orchestra, di certo in grossa difficoltà qualora dovesse celare il proprio organico visto che esso comprende ben due batterie! Oltre ai due percussionisti Jamie Graham e Tim Lane ci sono Joe Acheson, anima del gruppo, basso e programmazione, e la bella e brava Poppy Ackroyd alla tastiera, e al violino elettrico. In un ambito musicale in cui le percussioni sono spesso un sostrato gregario su cui poggiare il cuore della composizione, avere batteristi in quantità addirittura doppia rispetto alla consuetudine è evento assolutamente unico: molte frasi e fill vengono rimbalzati tra i due, con somma gioia et per l'udito et per l'occhio, testimone questo di una performance davvero spettacolare. Nel frattempo Acheson si divide tra lo strumento che tiene a tracolla ed il banco che manovra, mentre miss Poppy suona piano e violino senza abbandonare mai alcuno dei due: bello il particolare involontario dell'ombra di lei che tiene violino ed archetto in una mano, proiettata grande contro le pareti laterali del teatro grazie ai giochi di luce.

Hidden Orchestra - picture © of Edmund Fraser

Hidden Orchestra - picture © of Edmund Fraser

La cifra proposta è decisamente più movimentata e funky, a testimonianza uno spettatore sorpreso in piedi a ballare solitario e soddisfatto in un angolo verso la fine: al lancio di alcuni sample vocali antichi, il richiamo immediato è al Moby di Play [1999], con le dovute diffenze. Un paio di incisi al trombone per Lane a condire un'esibizione cristallina, chiusa dal loro brano d'esordio Antiphon, da Nightwalks [2010].

Il culmine del primo atto è affidato ai Kilimanjaro Darkjazz Ensemble, a parer personale apice della serata e forse dell'intera rassegna: il gruppo franco-olandese, coordinato dalla mente di Jason Köhnen già noto per formare assieme ad altri membri della formazione i Mount Fuji Darkjazz Corporation, offre musica in bilico tra gli Ulver di Perdition City [2000] - non quelli del precedente Bergtatt: Et eeventyr i 5 capitler! - ed il jazz cupo e suadente dei Bohren and der Club of Gore, tra i riferimenti più immediati.

Kilimanjaro Darkjazz Ensemble

Kilimanjaro Darkjazz Ensemble

Riferire in maniera fedele quanto provato è assolutamente impossibile in sede scritta: un'esperienza totale ed annichilente, di cui si ricordano istantanee come la voce chiara e a tratti spettrale di Charlotte Cegarra, gli ottoni lamentosi di Hilary Jeffery, le incursioni glitch come spilli su tappeti liquidi e lascivi, le gambe ed il corpo che tremano vistosamente più volte a causa delle frequenze non udibili. Menzione particolare va alla visual art, estensione sinestetica perfetta della musica, con quelle figure vagamente antropomorfe ed inquietanti deformate dai colpi più pesanti ed intensi, mutanti forma e colore per tutta la durata dell'esecuzione.

Terminata in maniera sublime la prima metà del festival, si lascia il teatro pronti per assistere al secondo appuntamento previsto per l'indomani a pochi isolati di distanza.

Day two - 6.4.13 @ Passionskirche

È quasi incredibile pensare di poter assistere ad ulteriori sei ore di bellissima musica, specie se in un luogo così bello e speciale quale la Passionskirche di Marheinekeplatz. Suoni familiari accolgono gli avventori: i brani di Carlos Cipa, trasmessi dai diffusori, accompagnano tutti i momenti di attesa sino al termine dell'evento.

Nota italiota: fa un certo effetto poter usufruire di un luogo sacro per ascoltare musica profana, e poter addirittura accompagnare lo spettacolo con del luppolo fermentato; del resto è un peccato non utilizzare luoghi così acusticamente eccelsi per la più divina delle arti, con buona pace di chi vedrebbe un evento simile come dissacrante ed inopportuno. Fuori da queste inutili considerazioni, il giorno due inizia nel più religioso dei silenzi con l'ingresso sul palco di Christoph Berg, qui per presentare le sue fatiche a nome Field Rotation.

Field Rotation - Fatalist: The Repetition of History - 2013, artwork

Field Rotation - Fatalist: The Repetition of History - 2013, artwork

Pianocoda e violino conditi da glitch e materiale ambientale lanciato via laptop, lo stile compositivo è vicino al conterraneo Max Richter e agli americani Rachel's di Music for Egon Schiele [1996], nonché a quanto già esplorata dalla premiata ditta Alva Noto + Ryuichi Sakamoto, da Edith Progue, da Fennesz e da Murcof. A causa di quel [sano?] delirio di onnipotenza creativo che talvolta impedisce a certi artisti di circondarsi di colleghi, Christoph si divide tra registrazioni in tempo rale di brevi incisi ora alla tastiera ora all'archetto, per poi suonarvi sopra di nuovo ed ottenere un effetto d'insieme veramente apprezzabile: su tutte spiccano le frasi per violino, assolutamente semplici ma ricche quando poi condite dalle medesime suonate ad altezze differenti o in moto contrario alle stesse.

Il turno successivo spetta agli Alvaret Ensemble, la cui performance è a parer personale la più struggente della giornata: la formazione, che vede Jan Kleefstra alla voce, Greg Haines al piano, Romke Kleefstra alla chitarra e Sytze Pruiksma alle percussioni, è in assoluto quella a far uso minore degli espedienti elettronici più moderni affidandosi solo ad un pur nutrito numero di pedali. Apre il solenne gong di Pruiksma, con lui circondato per l'occasione da una vasta scelta di strumenti percussivi suonati con perizia e grazia assolute per somma gioia dei presenti; è davvero difficile inquadrare i loro brani, dalle parti così spaziate e spesso disunite, con i singoli strumenti raramente operativi tutti assieme. Le solenni declamazioni vocali solenni avvengono quasi nel silenzio degli strumenti, questi spesso usati in maniera non convenzionale: dalla chitarra suonata con archetto [caro Efrim Menuck, ti dice nulla?], al piano percussivo e monotòno in alcuni passaggi, addirittura controllato manualmente nella vibrazione delle corde.

Alvaret Ensemble - picture © of Ondřej Výška

Alvaret Ensemble - picture © of Ondřej Výška

Il simpatico signore munito di berretto che sale sul palco subito dopo risponde al nome di Thomas Köner: lui, l'artista che aveva messo in musica il freddo abissale in Permafrost agli esordi della propria carriera [1993], è protagonista dell'esibizione più dura e meno accessibile; non è semplice sostenere il peso delle sue masse sonore totalmente atonali così a lungo e con volume così intenso, e di sicuro aver proiettato qualcosa dal repertorio visuale di cui lui stesso è autore avrebbe aituato a tenere l'attenzione massima per tutta l'esecuzione.

Thomas Köner - picture © of Ivana Neimarevic

Thomas Köner - picture © of Ivana Neimarevic

Torna poi a farci visita la cara Poppy Ackroyd, stavolta in compagnia dei soli strumenti - tastiera, violino, una sorta di spinetta - ed assistita da mani altrui solo per il lancio di campioni e tracce ulteriori: poverina, ne ha solo due! In tutta sincerità, l'esibizione è gradevole ma non lascia il segno vuoi per il troppo materiale aggiuntivo, vuoi per certa disomogeneità dei brani se confrontati a quanto proposto solo poche ore prima in compagnia del proprio gruppo; aver utilizzato il pianoforte a coda, posto lì proprio a due passi, avrebbe garantito più magia ad una prova comunque più che sufficiente per una delle pochissime figure femminili tra quelle partecipanti.

Poppy Ackroyd - picture © of Bella Thewes

Poppy Ackroyd - picture © of Bella Thewes

Tempo di rifornirsi di birra ed arriva il momento di Tim Hecker, forse l'artista di richiamo maggiore all'interno della rassegna: autore di numerosi dischi di estrema qualità [su tutti Harmony in Ultravialet, 2006 ed il più recente Ravedeath 1972, 2011], la sua è musica ambient particolarmente euforica per timbro e per incedere, figlia in buona misura dell'importante lezione di William Basinski. La performance inizia al calar della sera, e l'unica illuminazione per tutta la durata della medesima proviene fioca dal crocifisso alle spalle di Hecker, novello ministrante di una religione il cui primo sacramento è il rumore scolpito. Difficile anche qui riferire di un'esperienza totale ed imponente, si resta custodi gelosi di quanto ascoltato ed a tratti provato fisicamente sulla propria pelle.

Tim Hecker

Tim Hecker

Si chiude con Ulrich Schnauss, figura nota per rivisitato tra le tante influenze il dream-pop dei Cocteau Twins e lo shoegaze degli Slowdive in chiave più squisitamente elettronica. Tali premesse potrebbero portare a ritenerlo forse fuor di cartello, ma il suo ultimo disco [A Long Way to Fall, 2013] vira decisamente svolta verso la kosmische Musik, più vicina alla sua terra d'origine senz'altro. L'album viene eseguito nella sua interezza, con alcune frasi suonate dal vivo, a partire da quella d'aprtura: i suoni brillanti che lo hanno reso noto sono presenti in quantità, ma certo brio è stato sacrificato in onore di atmosfere più importanti - vengono subito in mente Klaus Schulze, sia da solo che in compagnia dei Tangerine Dream, e a tratti addirittura Art of Noise.

Accompagnato da visual art proiettata contro l'abside, sinceramente prescindibile se confrontato a quanto visto la sera precedente, Schnauss si lancia in audaci picchi di rumore totale mai osati in studio, sino ad un esplosione finale vicina alla soglia del dolore per chi ascolta; quando sembra non esserci più spazio sonoro per ulteriore evoluzione, l'artista chiude con una nota ronzante, sostenuta e irriverente, per il visibilio assoluto della platea che lo acclama mentre lui abbandona il palco: gli applausi scrosciano per il minuto abbondante di ronzio ed oltre, a riprova della massima soddisfazione espressa dai presenti.

Ulrich Schnauss - picture © of Nat Urazmetova

Ulrich Schnauss - picture © of Nat Urazmetova

Luci in sala, tempo di sbirciare il setup di Schnauss [laptop sorprendentemnte datato, controller a matrice, tastiera vissuta e colorata con pennarelli, processore multieffetto di fiducia], di ammirare per l'ultima volta la bellezza del luogo, ed è già tempo di considerazioni circa due giorni di musica splendida: menzione particolare va all'estrema cura dell'organizzazione, all'acustica impeccabile, al personale di sala gentile e disponibile, alla bellezza intrinseca delle location, alla compostezza e al calore del pubblico, ed ovviamente a tutti gli artisti, protagonisti di un evento davvero unico.


Denovali Swingfest non finisce qui: a breve fa tappa a Londra, mentre per l'autunno è prevista un'altra ad Essen, con la speranza che l'appuntamento si perpetui ogni anno sempre così godibile e sublime.