Piove in agosto.

La città si tingeva di tonalità che mai prima di allora aveva assunto: riflessi giallo e cremisi erano le ultime testimonianze di un’estate oramai tiepido ricordo, timida nell’intenzione e già crepuscolare nella forma; non vi erano foglie lungo i viali, ma l’autunno saliva già intenso dall’asfalto dopo il repentino temporale. Percorrere quelle strade era un’esperienza provante per chiunque avesse un minimo di sensibilità: innumerevoli corpi le solcavano rapidi e ponevano freno al loro incedere solamente per una vetrina che catturasse il loro interesse prosaico, o per assecondare il proprio tabagismo.

Corpi atti solo a sottrarre ossigeno, entità vacue e replicate, fautori incoscienti del modello economico che li avrebbe stroncati ulteriormente. Il sole scendeva stanco alle spalle di alberi folti, che di lì a poche settimane avrebbero perso il proprio carico caduco ed avrebbero così tessuto un tappeto dorato come l’astro che adesso accoglievano; un gesto quotidiano quello del sole, che nella sua pressoché immutevole costanza riusciva pur sempre a conferire magia ed interesse ad ogni giornata, almeno nei momenti di contatto tra la frenesia diurna e la quiete della notte.

Eppure tale prodigio ripetuto non era sufficiente a scostare la moltitudine dalle proprie indotte attitudini, dal torpore della mediocrità, dalla superstizione della religione; i volti si riproponevano continui, e per quanto alcune figure incarnassero sufficientemente i canoni della proporzione e della bellezza, esse non esercitavano alcuna attrazione su di me. Le scale dall’Accademia di Rappresentazioni del Corpo e della Mente brulicavano di studenti carichi di cartelline e rotoli, manuali e strumenti, ambizione ed insuccessi: erano perlopiù ragazze, tutte con la loro uniforme che lasciava libertà ai soli capelli, ora lunghi e rossi, ora corti e biondi, ora quasi a coprire gli occhi, ora mossi come l’oceano sulle scogliere d’inverno; nella mia tricotica enumerazione mentale, mi scontrai involontariamente con una di loro.

–Fa' attenzione, accidenti!

–Perdonami, ero a pensare - dissi mentre raccoglievo i suoi bozzetti - davvero mi dispiace.

Era bella, non avrei potuto discutere molto a riguardo. Ma la sua vacua altezzosità nell’individuare come prevaricatrice la mia sbadataggine mi indispose al punto da farmela apparire quasi sgradevole. Radunai il materiale e glielo porsi senza ulteriori scambi verbali, e pensai a quanto fosse inverosimile la possibilità di stringere amicizia raccogliendo oggetti finiti a terra e scambiandosi sguardi di curiosità durante l’atto, per quanto tali racconti mi fossero giunti in quantità da numerose fonti differenti: amicizie nate per un cappello, relazioni iniziate per una pila di romanzi, passioni scoppiate per degli spiccioli in un bar - non era vero niente, erano tutte speranze indotte dalla poetica intrinseca di un contatto casuale e complice, che terminava spesso con eccessi nauseanti di zelo ed educazione.

Il mio cammino quotidiano non prevedeva mai tale tappa accademica, ma quel giorno volli assecondare l’istinto sollecitato dalle avvisaglie della stagione oramai prossima; il grande edificio, costruito qualche secolo prima, era un connubio magnifico di rigore ed estro: le precise lesene salivano austere verso capitelli ricalcanti forme astratte di foglie e volute, scolpite nei marmi più variopinti; la scalinata di accesso si insinuava rotonda e insicura nella piazza antistante, i cui gradini scuri facevano eco all’imponente ingresso fregiato di intarsi minuziosi ed eleganti, osservabili con tranquillità solo nei giorni in cui il grande portone restava chiuso. Subito dentro, il vasto atrio era sovrastato da un lucernaio i cui giochi di rifrazione garantivano illuminazione ad ogni angolo della stanza in ogni momento della giornata; di lì partivano scale verso i piani superiori, verso quelli sotterranei e verso le ali esterne; la parete antistante l’ingresso invece si affacciava sul cortile interno, vero miracolo di suggestione architettonica. Esso infatti era costituito da ampi gradoni in pietra disposti in una chiocciola apparente che conferiva sottile senso di continua discesa, impressione poi scongiurata al termine di una rivoluzione completa che negava qualsiasi dislivello effettivo. Al suo interno crescevano rigogliose piante provenienti da ogni regione della Terra, la cui sopravvivenza comune pareva totalmente improbabile: essa era possibile grazie alle mirabili proprietà della struttura, che permettevano moti d’aria e cammini dei raggi luminosi differenti ed adatti per ogni specie. Vi erano arbusti, alberi da frutto, cespugli e rampicanti, tutti ben irrigati da una sapiente trama di tubature sita nel sottosuolo, costruita in modo da non osteggiare la propagazione delle radici. Dal giardino si ammiravano le finestre istoriate degli ultimi piani, piani ai quali né io né tantomeno gli altri studenti avevano mai avuto accesso: ospitavano uffici burocratici e stanze dal contenuto ignoto e verosimilmente non in grado di destare troppo interesse.

L’innocua tentazione di entrare nel palazzo per una breve visita trovava opposizione nell’eventualità di fare incontri poco lieti: sarebbe stato eccessivamente rischioso, almeno a distanza così breve dall’ultimo infausto contatto con Sofia.

[segue su "Buona giornata, Sofia."]