Aeroporti

Aeroporti

Brian Eno, Music for Airports - 1978

Ero in partenza per Londra. Sarei dovuto esser già lì da un pezzo invero, ma un guasto all'apparecchio ci aveva costretti a terra ed aveva rimandato la partenza per un tempo indefinito. Ci avevano dato un buono. O meglio, ci avevano detto di metterci in fila per ritirare il nostro buono. La gente pareva sollevata, il pensiero di ricevere quell'eucarestia sembrava avesse fatto loro dimenticare di essere ancora in aeroporto dopo oltre due ore dall'orario di decollo previsto.

Mi era già accaduto di ricevere un buono causa ritardo, sapevo quindi già quanto mi sarebbe spettato. Ci controllarono i documenti con lo stesso rigore adoperato al momento dell'imbarco e diedero via via ad ognuno un tagliando per un valore di cinque euro. Il prezzo di una bottiglietta d'acqua fluttuava fra i tre euro e cinquanta ed i quattro euro. Un frutto costava un euro e venti. Il più frugale dei pasti avrebbe assorbito tutto il mio risibile gutschein.

Passai innanzi a un punto di ristoro che offriva tranci di pizza ed altri prodotti da forno. A valutare quant'altro ci fosse dietro al bancone c'era anche una ragazza, sola, anche lei del mio volo. Le coincidenze della vita, le piccole sfortune che diventano prodigiose virtù: chiederle se gradisse la mia compagnia dopo una battuta sull'inaffidabilità degli aeroplani, mangiare goffamente due pezzi di quell'esosa pizza gommosa, appollaiati sugli scomodi sgabelli di quella chiassosa caffetteria piena di risentemento. Cose che non accaddero mai. Più osservavo il cibo e la tipa e più l'interesse che provavo per loro veniva meno. Me ne andai che lei ordinava un minuscolo rettangolo raffermo con sopra una fetta di mozzarella fredda. Dovette aggiungere una moneta a quanto garantitole dal buono.

Di tutte le persone che osservai, e poche sfuggirono al mio setaccio, credo nessuna avrebbe attirato la mia attenzione qualora vista in fin di vita, insanguinata, a terra. Qualche bella scopata, sì, ma oramai non ci avevo più grosso interesse per quel mondo. Proseguii per il corridoio, alzai lo sguardo in fondo ad esso e vidi un fast food. Saranno stati almeno sette anni che non mangiavo al fast food, non volevo dar loro un soldo. Ne esaminai comunque i prezzi. Una porzione di patate fritte, tre euro. Una bibita, due euro e dieci. Avevo una moneta da cinquanta in tasca, pensai che per un decino avrei potuto mettere da parte l'etica, alla luce delle circostanze.

Ordinai quanto deciso. Il cassiere battè anche una salsa per un totale di cinque euro e quarantotto, senza avermi consultato. Lo resi partecipe del mio dissenso, lui prese il mio buono e la mia moneta, armeggiò sbuffando contro la macchina e mi diece due centesimi di resto. Prese poi una manciata di patate stantie dalla cima del mucchio, le ficcò in una busta di carta assieme ad un bicchiere pieno e me la porse. Gli ribadii che la storia della salsa non era mica finita, almeno non per il verso giusto. Mi chiese se quindi io non volessi proprio alcuna salsa. Annuii solennemente, come un anziano maestro farebbe al procace allievo che arriva a dominare una nozione assai complessa dopo mesi di sacrificio ed esercizio. Mi tornarono indietro quaranta centesimi intrisi di rancore, senza alcuno sguardo ad accompagnarli. Presi posto su una di quelle scomode isole rialzate. Non era un'isola deserta, la condividevo con un altro naufrago rimasto a terra come me, intento a pescare da una busta identica alla mia. Faceva un gran chiasso nel masticare, nell'affondare le mani in quel sacco pieno di lardo. Ricordai perché non andavo più in questi posti, non tanto per etica quanto per amor proprio.

In fila al fast food c'era una donna su una sedia a rotelle. Non ho mai capito il perché del vezzeggiativo in una locuzione che indica un mezzo con delle ruote grandi come quelle di una bici. Suonerebbero poi così male "sedia a ruote", "sedia scorrevole" o "rotosedia"? Non era giovane, certo non più anziana di mia madre. Più bella certamente, la vita le avrà dato più ragioni per conservarsi e prendersi cura di se stessa. Il mio occhio cadde sui sandali dorati, e ricordai come fosse seduta innanzi a me sull'aereo, prima ci fosse comunicato di scendere a causa del guasto. Per tutta la durata dell'attesa il compagno le aveva massaggiato le spalle, la schiena, i reni. Di lui arrivai a scorgere solo le mani. Pensavo fosse solo il comprensibile tentativo di alleviare la frustazione per quel problema da primo mondo, il ritardo sapete. Solo quando la vidi lì in fila, capii.

Il brusco atterraggio di una bottiglia di rum scadente sul tavolo si portò via i miei pensieri. Presto seguirono tre bicchieri di carta del fast food, due energumeni senza collo, e poco dopo un tipo più smilzo con due bottiglie di coca-cola. Facevano dei segni lungo la bottiglia, delle tacche relative alla gestione del prezioso liquido. Si versarono tre bicchieroni di Cuba Libre di fortuna, caldo e senza ghiaccio. Io osservavo i cassieri. Erano vestiti come il motivo sulle buste che consegnavano, probabilmente la loro pelle era grassa e unta come il contenuto delle stesse. Appallottolai la mia, me ne liberai e cercai un posto a sedere altrove.

Di lì a poco mi sarei rimesso in fila con gli altri passeggeri, pronti ad ignorare con attenzione una nuova dimostrazione delle procedure d'emergenza.