Is this trip really necessary? Day 2

Il mio secondo giorno di permanenza madrilena inizia con un vago deja-vu: medesima ora di risveglio, medesima colazione, stessa destinazione; stavolta però evito la lunga camminata per risparmiare energia in vista della serata.

Mi dirigo presso la Fundacio' La Caixa, palazzo di esposizioni ubicato lungo il Paseo del Prado sponsorizzato dall'omonimo ente bancario catalano - dopo un primo piano dedicato a reperti Etruschi, il mio interesse per i quali è ampiamente superato da quello per le parigine della ragazza che mi precede, mi dirigo al piano superiore, ove ha luogo una bella mostra fotografica avente per soggetto Charlie Chaplin; dopo un'ora in compagnia di Charlot, mi incammino baldanzoso verso l'Fnac di Callao [passando ancora per Prado, Banco de Espana, Gran Via] alla ricerca di qualche disco o libro a prezzo interessante. La missione si rivela però infruttuosa, al che penso di fare un salutino da fuori al Bernabeu, evitando di rientrare per l'ennesima volta.

Torno a casa, mi cambio e valuto quale sia l'itinerario migliore per raggiungere la sala Riviera. Scelgo metro - linea 2 da Quevedo a Opera, poi linea R per Principe Pio. Una volta fuori, mi rendo conto di non saper minimamente come raggiungere il luogo del concerto, avendo dato solo uno sguardo approssimativo alla mappa del locale. Mi ricordo che avrei dovuto costeggiare un parco; peccato mi trovi proprio al vertice di esso, e non so quale delle due direzioni scegliere. Intuito mi suggerisce di seguire una coppia di ragazzi con indosso una maglietta dei Tool: quando il pensiero che i piccioncini stessero andando nella direzione opposta alla ricerca di intimità mi era ormai sopraggiunto, vedo una massa indefinita di capelloni a confermare la bontà della mia scelta. Entro nella sala, e riesco a prendere un posto decente - quinta fila lievemente decentrato a sinistra - non prima di aver preso una chiara media. La barista, per inciso, era una fottuta dea.

Aprono il concerto i nonsocchi, gruppo spalla assolutamente non malvagio, con una bassista/tastierista il cui carisma supplisce eccellentemente alla bellezza non statuaria. Scambio due parole con dei ragazzi dietro di me, i quali fantasticano su una playlist totalmente psichedelica. Mi prendo l'ingrato compito di avvisarli che purtroppo Wilson e amici suoneranno quasi per intero Fear of a Blank Planet, come avevano già fatto in occasione della tappa romana del loro tour.

Le mie previsioni si rivelano lievemente errate: non suonano quasi per intero il loro ultimo album, bensì lo eseguono *integralmente*. I cinque salgono sul palco ed è delirio: li vedo tutti, Wilson, Barbieri, Harrison, Edwin, Wesley, pronti e carichi subito con la title track. Sullo sfondo proiettati i video relativi ad ogni brano, come avevano già fatto al Tendastrisce. Se in tale circostanza però avevo avuto modo di lamentarmi dell'acustica, qui devo dire che le cose vanno in maniera assai peggiore: voce poco nitida, timbriche per nulla cristalline. Addirittura la seconda strofa è priva di Wesley per problemi tecnichi, prontamente risolti.

Poco male, la parte centrale e la ripresa di FoaBP sono talmente robuste che non ci faccio più caso. Wilson posa la chitarra per accompagnare l'intro di My Ashes alla tastiera. Presto è il momento della sontuosa suite "Anestaethize", un quarto d'ora abbondante di maestria, di "Sentimental" e di "Way out of here". Con tutta sincerità si potrebbero risparmiare "Sleep together", ma non badano a spese.

Dallo stringato resoconto di questo inizio si nota che il disco non sia di mio eccessivo gradimento - così è, ma del resto mi viene in mente la brillante riflessione per la quale, se dicessi ad una ragazza appena uscita dal parrucchiere che stava meglio prima, essa si cruccerebbe - come pretendere quindi che un artista rinunci all'esecuzione della sua più recente creazione?

I PT vanno per qualche minuto dietro le quinte, la gente inizia ad inveire neanche ci fosse Richard Benson sul palco. Potersi gustare gli improperi in lingua madre è un lusso per pochi.

Torna Wilson. Quello degli anni novanta. – Do you speak english? – Yeah! – How far can we go? Do you know a record called..Stupid Dream? – Yeah! -...and do you know one called..Signify? – YEAH! – We're gonna play a song from that album..this is called..

[Ti prego, suona Signify stessa.]

-..Dark Matter.

Palo, la mia seconda preferita. Estasi sonora. I am, I know.

Poi una vera gemma, inaspettata. Da The Sky Moves Sideways. Le stelle muoiono. Wilson alterna la chitarra ad ogni brano, passando da elettrica ad acustica.

E' il turno dell'opinabile "Open Car". Non puoi suonarmela tra i mostri sacri, ma apprezzo comunque. Da Wilson mi aspetterei sempre concerti ipertecnici ed iperpsichedelici, sperando attinga dal suo periodo più progressive. Ovviamente così non può essere ora, e Wilson sceglie di stupirmi, prendendomi dritto al cuore con In Absentia: prima una potente "Wedding Nails", poi una maggiore componente melodica in "Blackest Eyes". Saluti.

-Where are gonna play one last song. This is called Trains.

Fottuto Wilson, la sua ballata più struggente. La simbiosi sonora è totale.

– When I hear the engine pass, I'm kissing you wide.. [vi adoro] – The hissing subsides, I'm in luck.. [è vero, lo sono]

– When the evening reaches here.. [cazzo continua] -..you're tying me up.. [non fermarti] -..I'm dying of love.. [I'm dying too] -... [say it goddamn] -..it's ok..

Will love you forever, Wilson.