God is an Astronaut [+Junius + Lili Refrain] Live @ Circolo degli Artisti, Roma

God is an Astronaut [+Junius + Lili Refrain] Live @ Circolo degli Artisti, Roma

Foto Martina Sanzi

La trama del postrock è cosa nota: chitarre vestite da pianoforti, percussioni piccate ora quadrate ora frenetiche, strati sonori accomodanti, chiaroscuri timbrici e di struttura. Qualche voce ogni tanto, ma senza esagerare che altrimenti i puristi dello strumentale si accigliano. Un po’ di frenesia nelle code, un po’ di incedere sludge nel corpo dei brani, ma senza sconfinare nel metal altrimenti le frangette si spettinano.


Lungi dall’esser stato disatteso, il copione di questa serata romana ha comunque previsto una tripla performance assolutamente convincente e di qualità: si dividono il palco Lili Refrain, Junius e gli headliner God is an Astronaut. La chitarrista, armata solo di strumento e loopstation, regala un intro all’insegna del rumor bianco e della distorsione, scaldando veementemente la platea con un’energia ed una personalità a stento contenute nel locale. Di lì a poco è il momento di Junius: la band statunitense, supporto per gli artisti di cartello nella loro tourneé, sono un progetto di meritato interesse nel panorama di appartenenza; il loro sound rielabora gli elementi propri del postrock e del metal più crepuscolare (Katatonia, Anathema, Isis), condendo gli elementi con una voce baritona che fa eco ai celebri compagni di registro Smith e Curtis, ottenendo così discreta originalità - qualità assai rara oramai nel terreno del dopo-rock. Purtroppo l’acustica si rivela rude con loro, e le timbriche risultano molto penalizzate rispetto al disco, specie quelle vocali; se riusciranno a mantenere il medesimo livello nelle produzioni successive, presto saranno loro stessi a doversi trovare dei gregari per le prossime performance nel continente.


Ad un anno preciso dalla loro ultima esibizione in suolo capitolino, è di nuovo ribalta per il trio irlandese, ancora una volta qui a ricordare la natura cosmonautica del divino: l’imponente parete sonora è accompagnata da un muro di luce costituito da quattro ideali colonne, a rendere totalmente sinestetica l’esperienza. Il gruppo esordisce con materiale tratto dalla loro ultima fatica discografica, ma saprà spaziare attraverso tutto il proprio catalogo per una prova davvero omogenea e brillante, senza l’ombra di un punto morto o di un momento di autocelebrazione.

Foto Martina Sanzi

Foto Martina Sanzi

Si passa così dalle atmosfere più canoniche di Suicide by a star e Forever Lost, agli arrangiamenti più energici di Snowfall ed Echoes, ai richiami elettronici di Route 666 e From Dust to the Beyond, al momento di massima tensione di tutto il concerto, individuabile in Zodiac - qui presentata in veste leggermente estesa; qualora negli anni i fratelli Kinsella e socio (Lloyd Hanney) si fossero lanciati in sinfonie degne del gruppo con cui condividono la radice semantica, sarebbero risultati di certo noiosi al loro cospetto: loro hanno invece saputo raggiungere un equilibrio sonoro e strutturale notevole, che conferisce ai loro lavori freschezza e bagliore senza mai annoiare né ricorrere ad espedienti talvolta abusati nel genere, quali l’utilizzo di strumenti orchestrali.

Foto Martina Sanzi, by Martina Sanzi

Foto Martina Sanzi, by Martina Sanzi

Fotoni ed onde sonore continuano ad irradiare in sinergia la platea divisa tra estasi composta e delirio di movimento; c’è tempo per un encore assolutamente dovuto, alla luce del calore restituito ai musicisti - ultimo regalo è Fire Flies and Empty Skies, motivo ammaliante che difficilmente avrà abbandonato la mente dei tantissimi presenti ad uno degli appuntamenti più attesi e riusciti della stagione: della natura di Dio non ci è dato sapere, ma se esiste di sicuro è un Astronauta.


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