Panettoni.

Panettoni.

Venezia, chiesa dei Santi Apostoli, 2016

Mi passo la lingua sugli incisivi intrisi di caffé caldo, ne esploro la superficie insospettabilmente porosa e ripenso a quella sera con Jon. Incontrare Jon richiede pazienza, ti devi prendere la sera libera in anticipo. Non è uno di quelli ehi ci facciamo un bicchiere da me e via. Dice che gli va bene alle sette e mezza. Gli chiedo se vuol cenare qualcosa. Mi dice volentieri, ma prima deve sbrigare una faccenda e farà un po' più tardi. Ho molta fame ma aspetto. Jon richiama e dice arriverà verso le nove. Alle nove e mezza richiamo io, dice che arriverà tra una ventina di minuti. Mi dirigo alla fermata del tram dove ci eravamo dati appuntamento per due ore prima, impongo le dieci come limite alla mia pazienza. Alle dieci e un quarto chiamo di nuovo, dice che è quasi arrivato, che ha dovuto cambiare tram causa deviazione per lavori pubblici.

Jon consegna cibo a domicilio, so che ha il turno di pomeriggio e che di sicuro non aveva avuto tempo di mangiare, per questo volevo aspettarlo. Non mi piace mangiare da solo poi, è come guardare dalla finestra una donna che passeggia. È piacevole sì, ma è meglio passeggiare con lei. Non credo sia un paragone troppo azzeccato, ma tant'è. Arriviamo in questa pizzeria dove vado spesso, almeno un paio di volte a settimana. Le cameriere sono tutte giovani e carine. Vestono pantaloni di jeans e maglietta bianca, e sono quasi tutte bionde. Sembrano creature di un'altra specie, danzano spensierate e leggiadre sullo stagno della loro seducente onnipotenza giovanile. Ho chiesto una volta ad una di loro di uscire, mi ha ringraziato formalmente per l'invito e ha sempre continuato ad essere estremamente gentile con me al netto del rifiuto. Ogni tanto ci penso ancora, ma più per lo strascico di zelo che per le belle gambe o i bei capelli.

Ci sono queste tavolette di legno che pendono dal soffitto, con su scritto il menu. Ci saranno una dozzina di pizze diverse, una per tavoletta. Ci eravamo già stati più di una volta con Jon. Guarda le tavolette con attenzione. So già cosa ordinerò, un pezzo di margherita e uno di marinara come sempre. Aspetto che Jon decida. Ho conosciuto Jon alla festa di un collega del mio ufficio, ci presentarono perché lui voleva imparare lo spagnolo e gli serviva di far conversazione. Ci aveva la tipa di Valencia, e voleva far bella figura quando l'avrebbe rivista. Non abbiamo conversato granché in spagnolo, ma ogni tanto mi richiama per vederci.

Non c'è nessuno in fila dopo di noi. La cameriera bionda in jeans e maglietta bianca continua a sorriderci a turno, le comunico il mio desiderio alimentare. Cinque minuti dopo Jon fa altrettanto. Sono le dieci e quaranta. Chiedo a Jon se vuole anche qualcosa da bere, va verso il frigo. Vendono due tipi di birre qui, non che siano troppo diverse. Una ha l'etichetta bianca e rossa, l'altra blu. Jon soppesa una bottiglia di ogni marca, ne legge le etichette. Sono birre Jon, costano uguali. Ne prende una bianca e rossa, la posa al bancone. Non mi chiede se ne voglia una anch'io. Undici meno un quarto. La tipa ci dice il totale, quindici e cinquanta. Metto i miei tre e cinquanta sul bancone, Jon mette dieci. La cameriera ci guarda. Io guardo Jon, spaesato. Jon mette altri dieci, prende gli otto di resto e mi raggiunge fuori.

La tipa di Valencia non tornò più, scrisse che aveva iniziato l'accademia di cinema a Madrid e che sarebbe rimasta lì. Jon non volle più saper nulla di spagnolo, conobbe poi una tipa tedesca che lavora in biblioteca e di lì a poco andò a vivere a casa sua. Lei ha una figlia da una precedente relazione. Vivono in tre in una casa poco più grande del mio monolocale. Christine si chiama. La madre, non la figlia. Della figlia non ho mai saputo il nome. Arrivano le pizze, la cameriera in jeans e maglietta bianca mi porta un ordine sbagliato. Le dico che va bene lo stesso. Le chiedo un bicchiere d'acqua. Jon ha già finito la sua birra. La cameriera mi ricorda una tipa seduta innanzi a me in treno in un viaggio di qualche anno prima, verso Venezia. Ci scambiammo un paio di sguardi e null'altro. Con la cameriera nessuno scambio. Jon dice che dopo sarebbe passata Christine a salutarci. Christine ha due gatti a casa. Due sorelle siamesi, in accezione felina e non umana. Le gatte sono l'unico argomento di cui abbiamo mai parlato.

Jon dice che forse lo promuoveranno a capo della logistica. Dovrà coordinare i fattorini, organizzare i turni, quelle robe lì. Dice gli mancherà un po' fare su e giù per la città in motorino, ma che gli farebbe stare un po' al caldo dell'ufficio per una volta. Un giorno portò del cibo thailandese all'ultimo piano di un palazzo dall'aspetto assai opulento, gli aprì una donna molto bella in vestaglia. Era visibilmente sconvolta dice, aveva capelli lunghi e scuri, del trucco sfatto, gambe inusitatamente esili. Lo invitò a mangiare il cibo thailandese con lei, gli fece cenno di entrare. Jon rispose che doveva portare del sushi due isolati più in là. Lei lasciò venti di mancia, ed il cibo thailandese fuori la porta dopo essersela sbattuta alle spalle.

Jon ha già terminato la sua pizza mentre io mangio la mia, diversa da quella che avevo ordinato. Ricordo i lunghi capelli biondi di Christine. Mi costa riconoscere la donna che si siede di fianco a Jon dopo avergli sorriso. Ha il cranio interamente rasato. Penso ad un male brutto, penso. Undici e dieci, nessuna parola oltre i saluti. Le chiedo come stiano le gatte. Bene. Dico loro che a breve sarei andato a visitare degli amici a Roma. Jon racconta di un suo viaggio in Italia con una sua ex. Udine ed altre città del nord. Io elenco le località che conosco tra quelle citate, e per ognuna i siti di interesse. Christine non dice nulla, ma non è disturbata dal memoriale femminile di Jon. Beve una limonata che era andata a prendere dentro, nel frigo. Provo ad introdurre un altro tema senza esito. Christine va a pagare la limonata, dice che prima non aveva trovato nessuno al bancone.

Il marito di Christine se n'era andato senza dar spiegazioni. Aveva radunato le proprie cose e lasciato che la loro repentina assenza parlasse per lui. Jon vuole bene alla figlia di Christine, ma non vuole averne di proprie o di propri. Neanche io. Inorridisco all'idea che qualcuno si ritrovi me come padre. Mica te li scegli i genitori, te li tieni per come sono. È la più crudele delle lotterie. Jon guarda preoccupato dentro, chiedendosi perché Christine ci stia mettendo così tanto. Sarà in bagno Jon. Christine torna, saluta Jon con un bacio e me con un cenno del capo calvo. Vi lascio alle vostre cose, ragazzi, non bevete troppo. Le dico di salutarmi le gatte. Dico a Jon se vuole farsi una birra su da me, ché abito dietro l'angolo. Passiamo allo spaccio sotto casa. Ci ha dei grossi frigoriferi con le porte trasparenti, e lampade bianche ad illuminare a giorno il contenuto di ognuno. Jon pianta il naso contro il frigo di mezzo e passa in rassegna tutte le marche di birra. Ce ne saranno una ventina diverse, tutte economiche e dal sapore pressoché uguale. Prendiamo quattro birre diverse, due scelte da Jon e due prese a caso da me.

Quando andai a Venezia era Natale. Decisi di passarlo lì, perché mi faceva male rimaner qua da solo, e di veder qualcuno avevo poca voglia: tanto valeva stare nella città più bella del mondo. Far il postino a Venezia deve essere un bel daffare, con tutta quell'acqua e quelle stradine impossibili da raggiungere senza averne prima attraversate altre cento, tutte avvolte da quel liquido placido e marino. Ci arrivai il ventiquattro al pomeriggio, c'era un bel sole ed iniziai a vagare senza meta, come una raccomandata per Venezia dal destinatario illegibile. Solo una birra ghiacciata tra le quattro. Una di quelle di Jon. Metto le altre tre in frigo e porto quella fredda di là, con due bicchieri. Jon riempie il suo. Attendo faccia altrettanto con il mio. Il mio bicchiere resta vuoto. Gli chiedo un goccio della sua birra, me ne versa un po' di buon grado. Brindiamo. Gli chiedo se Christine stia bene, la storia dei capelli sai. Dice che ha conosciuto un santone indiano, che ora si è avvicinata ad una filosofia di cui non ricorda il nome, e che fanno meditazione. Anche Jon porta i capelli rasati. Non credo Jon abbia mai meditato molto. Dice che se lo faranno capo della logistica potranno permettersi un viaggio in estate. Parigi dice, ma senza la figlia di Christine, ché stare un po' da sola le farebbe bene. Le altre birre si sono freddate, ne prendo due e le apro. Brindiamo, a Parigi.

Quel pomeriggio della viglia di Natale a Venezia giravo vicino la Madonna della Misericordia. Uomini e donne belli ed eleganti visitavano frenetici i negozi come fuchi sulle celle di un alveare, e si preparavano all'imminenza della festa. Anche io ero elegante. Bello chissà, di sicuro più giovane che adesso. Vidi una tipa seduta a terra, con una chitarra sulle gambe, del tabacco in mano e un cane a fianco. Mi chinai e le chiesi permesso di suonarle una canzone per la durata della sia sigaretta. Tirò su il mento mentre leccava la carta e mi porse lo strumento. Mi sedetti a fianco a lei e gliene dedicai una dei Velvet Underground. Non aveva idea di chi fossero ma le piacque lo stesso. Cécile, viveva per strada col suo cane. Mani sporche di viaggio, occhi puri di immortalità. Mi suonò un pezzo dei suoi, su quella chitarra grezza e ruvida. Ci alternammo per qualche brano, con i regali dell'ultimo minuto a sorvolare le nostre teste. Suonai un'ultima cosa, un ragazzo di passaggio si girò a cercare da dove provenisse la musica e mi fece il pollice su. Restituii la chitarra, feci una carezza al cane. Presi forte la mano di lei, la baciai e le dissi che era fatta della stessa sostanza di dio, e che non avrebbe mai dovuto smettere di suonare e cantare. La mattina di Natale mi sdraiai a prendere il sole sul bordo del canale in Madonna dell'Orto. Facevano venti gradi. Un tipo con due panettoni in mano si fermò ad assicurarsi stessi bene. Risposi che non ero mai stato meglio e che i suoi panettoni mi facevano ombra. I panettoni se ne andarono stizziti. Chiesi al sole di non muoversi mai più dal centro di quel grande lenzuolo azzurro. Non mi diede ascolto.

Jon dice che in quel palazzo del cibo thailandese ci è tornato un paio di volte e non ha trovato alcuna donna ad aprirgli, ma dei ragazzi che non gli han lasciato alcuna mancia. Non gli erano accaduto granché altro di strano, qualche scenata per del cibo freddo e poco più. Jon ha gli occhi piccoli e vicini. Mi domando che diritto abbia io di pensare che lui non possa averceli i sogni miei o il mio tormento, e perché io debba sempre reputare inferiore qualsiasi persona con cui parli, per poi ritrovarmi solo in fondo alla trincea che con tanta fatica mi scavo attorno ogni volta, con la stessa livorosa pala. Apriamo l'ultima birra. Spero proprio che Jon ci vada a Parigi.